mercoledì 27 dicembre 2017

Cujo di Stephen King

Da un libro di King forse ci si aspetta di trovare storie di eventi sopranaturali, di elementi esterni che minacciano la vita di noi umani, inspiegabili fenomeni che, inserendosi nella quotidianità, ne alterino il normale svolgimento inserendo al suo interno situazioni che generano paura fino al terrore.
In Cujo è presente questo tipo di paura all'inizio del libro e ha le sembianze di un mostro che si nasconde nell'armadio di un bambino, Tad Trenton, e durante la notte si manifesta e lo terrorizza.  Potrebbe essere quasi inteso, questo inizio, come premonitore di cosa accadrà dopo, un sottofondo che dall'inizio strizza l'occhio all'incomprensibile fuori dalla realtà lasciando aperte interpretazioni altre rispetto allo svolgimento più che razionale di tutta la vicenda che da lì si svilupperà; non solo il bambino, ma anche i suoi genitori, Vic e Donna, avranno di quel mostro un vago sentore, nonostante il loro naturale scetticismo verso i timori di un bimbo nella notte.

E quel mostro assomiglia maledettamente a Cujo, che però è un San Bernardo di quasi 100 chili e che, come tutti i cani della sua razza, è un compagno affettuoso e giocoso, con adulti e bambini. Vive con una famiglia  di tre persone  Charity , Joe  e  Brett il figlio di circa dieci anni . Joe è un meccanico ed abita e lavora in un luogo isolato fuori  paese ed è per il suo lavoro che entra in contatto con i Trenton.

La trama del libro intreccia però tra i suoi protagonisti ben altre paure, molto più correlate al normale svolgimento della vita,:quella di Donna di diventare una banale casalinga americana, tra feste di beneficenza e sformati da cucinare il sabato sera, condannata a vedere sempre le stesse facce, sentire sempre le stesse cose, gli stessi pettegolezzi; quella di Vic di perdere il lavoro, l'amore della moglie, la sua famiglia; quella di Charity della violenza fisica, e non solo,  del marito su di lei e dell'influenza negativa che può avere sul loro figlio; quella di Brett di non essere all'altezza delle aspettative del padre su di lui. Solo Joe e il suo amico Gary, impenitenti alcolizzati, sembrano non avere paure di sorta, forse loro non si aspettano più alcunchè dalla vita, e le loro speranze e paure le hanno già annegate nell'alcool.

E' tra queste paure, umane e comprensibili, che si insinua il terrore puro attraverso una strada fatta di coincidenze che sommate una all'altra porteranno Cujo a contrarre la rabbia e Donna e Tad, e non solo loro, a subirne le conseguenze vivendo ore di un'angoscia incalzante.

Non è necessario l'ultraterreno per seminare panico nella vita degli umani, è sufficiente il caso a determinare eventi drammatici, non abbiamo il controllo della vita e anche da quello che sembra il più rassicurante elemento, il buon San Bernardo in questo caso, può derivare un male destabilizzante e distruttivo; ma la cosa ancora più inquietante e sottesa a tutta la narrazione, di cui purtroppo non ci è possibile dubitare se guardiamo alla Storia passata e attuale, è la parte nascosta dell'uomo, quella ferocia gratuita che lo rende "rabbioso" senza essere contaminato da un virus esterno, è il cuore di tenebra che sembra far parte di noi e che non sempre riusciamo a tenere chiuso nell'armadio, e tutte le volte che riesce a uscirne le vite, la vita, ovunque e sempre, si tingono di un rosso malato.

La maestria nella scrittura di King sta nel giusto equilibrio degli elementi narrativi, nella capacità di creare tensione senza eccessi descrittivi, facendo un uso abile del linguaggio e del suo estro creativo fino a regalarci i pensieri del buon Cujo,  che, suo malgrado, sente montargli dentro la rabbia senza poterla fronteggiare, soffrendo e facendo soffrire.











sabato 4 novembre 2017

Gli invisibili

Cristina Henriquez  Anche noi l'America
ed. NNE, traduzione di Roberto Serrai

Il titolo originale è The book of Unknown Americans, ma, come ci dice il traduttore in una postfazione, è stato felicemente cambiato in Anche noi l'America prendendo spunto da una poesia del poeta africano americano Langston Hughes: I, too ( I,too, sing America....I, too, am America).
La mancanza del predicato verbale - dice sempre Serrai -  lascia liberi di inserire il verbo che si preferisce associare a questo strano, eterno esperimento di paese.

Il libro tratta dell'immigrazione dal Messico verso gli Stati Uniti sia di messicani che di altre popolazioni dell'America del sud per sfuggire a situazioni di povertà, disagio e pericolo personale.

E' una narrazione corale suddivisa in capitoli intitolati a singoli personaggi. Quelli che hanno più voce sono i protagonisti di due famiglie, una proveniente dal Messico per assicurare migliori cure alla figlia adolescente reduce da un incidente che le ha procurato danni mentali e l'altra emigrata da Panama quindici anni prima con due figli di cui uno, Mayor, adolescente. Tra gli adulti, sopratutto tra le due donne, nasce una profonda amicizia, fatta di  comprensione e solidarietà, e tra i loro figli una tenera relazione che ridarà il sorriso alla ragazza, Maribel, che si sentirà accettata per quello che è mentre intorno a lei si crea un certa diffidenza per la sua difficoltà di inserirsi nella normale quotidianità; le attenzioni di cui ha bisogno necessitano di una scuola di sostegno e la sua capacità di relazionarsi con gli altri e la realtà circostante è inficiata dai danni subiti a seguito dell'incidente.

Tutti abitano nella stessa zona in un paese del Delaware insieme ad altri immigrati, che, pur provenendo da luoghi diversi, cercano di fare comunità tra di loro. Sono alcuni di questi che, con le loro storie, compongono altri capitoli del libro dando un respiro più ampio alla narrazione e più completezza alla definizione del fenomeno della migrazione interna al continente americano, fenomeno tragico, quanto attuale, che ha origine dall'espansione statunitense nei territori messicani di metà '800 e continua con l'ingerenza degli USA negli stati del centro e sud America negli anni a seguire.

Sono persone che provengono dal Paraguay, Guatemala, Puerto Rico,Venezuela, Nicaragua tutte arrivate con l'aspettativa di un futuro migliore e che si ritrovano, invece, a dover gestire una quotidianità piena di problematiche: essere accettati all'interno della società statunitense, imparare la lingua e le abitudini, trovare un lavoro che non sia improntato a una estrema precarietà e causa di sfruttamento, abitare in case fatiscenti, fare i conti con una costante insufficienza di denaro, sentirsi esclusi da quell'ormai famoso, quanto illusorio, "sogno americano" che ha mietuto sempre più vittime e non solo tra gli immigrati, ma anche tra una grossa fetta di statunitensi. Questi ultimi però, forti del loro orgoglioso senso di appartenenza alla nazione, tipico di quel popolo a tutti i livelli sociali, non sviluppano un senso di solidarietà verso lo straniero che vive nella loro stessa  marginalità, ma solo diffidenza se non, addirittura, odio.

Tutti i protagonisti del libro vivono in bilico tra la speranza e la nostalgia, tra la tensione di integrarsi e il desiderio di mantenere vive le proprie origini, le proprie abitudini. La diversità del cibo, primaria necessità, subito fa da spartiacque tra il prima e il dopo, segna lo straniamento di trovarsi fuori dal proprio ambiente, dal calore che l'appartenenza a una collettività trasmette, da quell'insieme di consuetudini che rassicura, protegge, fa sentire partecipe, a pieno titolo, di un ambiente sociale.

"Anche noi l'America" potrebbe voler dire che tutti i protagonisti appartengono all'America come continente, ma anche che tutti fanno parte di quel coacervo di popolazioni che abitano gli Stati Uniti, senza essere però riconosciute di fatto come sue componenti, potrebbe voler dire che tutti a partire dai nativi agli africani ai messicani etc, appartengono a quella invisibilità umana di cui parla Ralph Ellison, frutto di un razzismo diffuso e molteplice che ha discriminato tutti coloro che non potevano essere associati a quel nucleo fondante dell'America del nord che tuttora resiste nel volersi affermare come unico degno di esercitare la libertà. Quella libertà americana intesa come attributo unicamente soggettivo che consente loro di poter disporre delle cose e degli altri senza reciprocità e senza limite alcuno, nella convinzione di essere depositari di una verità esclusiva e di una missione divina, ma anche laica, di modificare il mondo a propria immagine e somiglianza.

L'autrice, nel racconto lineare, che si sviluppa attraverso le vicende dei suoi protagonisti e delle loro famiglie, inserisce al suo interno tessere narrative di altre situazioni personali che fanno del libro un mosaico di vite il cui insieme delinea le problematiche umane di un fenomeno sociale, quello dell'immigrazione, quanto mai attuale e, ormai, di portata mondiale ben lontano da una giusta soluzione.

Tutti i personaggi parlano in prima persona dando al romanzo un'immediatezza espressiva che coinvolge il lettore fino a commuoverlo nelle pagine più drammatiche, in esse il dolore è reso vivido e intenso, senza uso alcuno di malizia retorica, ma con l'autenticità di una scrittura che partecipa alle emozioni narrate.

Solo una delle protagoniste principali non ha voce propria e viene raccontata attraverso le relazioni che gli altri hanno con lei, Maribel che, nella sua perdita del contatto con la realtà, deve ricostruire la propria vita e rinascere come individuo.


Langston Hughes

I, TOO                                                                         ANCH'IO                                                     

 I, too, sing America                                             Anch'io canto l'America
I am the darker brother                                     Io sono il fratello più scuro
They send me to eat in the kitchen                  Mi mandano a mangiare in cucina
When company comes                                       Quando vien gente
But I laugh                                                            Ma io rido
An' eat well                                                           E mangio bene
And grown strong.                                             E divento forte.

To-morrow,                                                         Domani,
I'll sit at the table                                                Siederò a tavola
When company comes                                      Quando verrà gente
Nobody'll dare                                                    Nessuno oserà
Say to me,                                                            Dirmi:
"Eat in the kitchen"                                           "Mangia in cucina"
Then                                                                      Allora.

Besides,                                                                  E poi,
They'll see how beautiful I am                         Vedranno la mia bellezza
And be ashamed, -                                              E ne avranno vergogna:
I, too, am America                                              Anch'io sono l'America








martedì 10 ottobre 2017

Lincoln nel Bardo di George Saunders




Premessa: Il Bardo, nella concezione religiosa del Buddismo, è lo stato della mente dopo la morte, uno
stato di transizione tra la vita e la rinascita, in cui la coscienza si distacca dal corpo.


 Saunders con questo libro lancia una sfida al lettore, alla letteratura e a sé stesso.

Egli si porta e ci porta, per tutta la durata della narrazione, in un luogo dove tutti sono reali ma al contempo al di fuori della realtà fisica, dove il tempo di una esistenza si può concentrare in un attimo o perdersi nell'eternità.

Se il concetto del tempo nel libro è completamente evanescente, il tempo narrativo è ben specificato: è il giorno dei funerali di Willie, figlio undicenne del Presidente, il 24 febbraio 1862. Durante la notte Abe Lincoln da solo, cavalcando un misero cavallo così piccolo che quasi i suoi piedi toccano terra, travolto e stravolto dal dolore per la perdita del figlio, si reca nella cripta dove è stato deposto per stare con lui un'ultima volta.

La sfida al lettore è quella di soggiornare in un luogo straniante e scomodo che lo mette in contatto con l'ambiguità del mistero della vita e della sua fine, con le paure recondite "dell'aldilà", e con il tabù di quello che potremmo, forse, essere quando non saremo più.

La sfida alla letteratura è quella di inserire al suo interno un libro che rompe gli schemi narrativi tradizionali, in una frammentarietà di voci inusuali e spiazzanti a cui si intervallano, casualmente, citazioni, vere e false, di personaggi dell'epoca, in una sorta di responsoriale alternanza tra narrazione surreale e storica.

La sfida per l'autore è quella di realizzare letterariamente il Bardo,  luogo di struggente nostalgia, di dolore, pietà e paura in cui si aggirano coscienze in bilico tra il rimanere  ancora legati in qualche modo alla vita o l'assurgere ad uno stato diverso e definitivo di pura spiritualità; coscienze dei più svariati personaggi, di diverse estrazioni sociali, colti, ignoranti, ladri, militari, razzisti, ubriaconi, artisti, omosessuali, scapoli, coniugi, madri, tutti con una loro storia, un loro linguaggio, tutti convinti di essere "malati", quindi tutti con la speranza di "guarire".

Sono alcune delle voci di queste coscienze che ci accolgono subito ad inizio libro e che rimarranno con noi fino alla fine, a loro se ne aggiungeranno molte altre in un balletto continuo di anime che parlano, raccontano, commentano, si muovono, partecipano e resistono a lasciare quello stato ambiguo.

Sono loro che accoglieranno Willie - è lui il Lincoln nel Bardo - sono loro che seguiranno il Presidente nella sua notte di dolore che, inconsapevole di cosa lo circonda, farà un gesto che li toccherà profondamente: aprirà la bara del figlio e lo abbraccerà, lo terrà nelle sue braccia, lo accarezzerà parlandogli.
Nessuno aveva osato fare tanto, l'unico contatto fisico - ricordano le anime- a loro riservato era stato quello utile alla loro sistemazione nella "cassa da malato" mai erano stati toccati, presi tra le braccia dopo la loro "malattia", e questo riaccende in loro la speranza che non tutto sia perduto.
Lincoln padre sfida il tabù della morte, quell'estraneità che coglie verso il corpo di chi non è più, il corpo che diventa qualcosa di diverso dalla persona che lo abitava, una cosa, in via di disfacimento, quella cosa che tutti noi, prima o poi diventeremo.

Il pathos di quel momento è potente, riporta visivamente alla Pietà di Michelangelo ed eguaglia la forza emotiva dell'ultima scena di Furore di Steinbeck.

Se il Presidente, inconsapevolmente, porta scompiglio all'interno del Bardo, anch'egli sarà influenzato da quella sua esperienza drammatica che lo porrà di fronte alle sue responsabilità di uomo politico; capirà attraverso il suo dolore quello delle migliaia di persone che hanno perso e perderanno i loro figli nella guerra civile in corso, comprenderà la devastazione umana che la guerra sta portando, si chiederà quanto quello che sta facendo sia giusto. Si troverà a capire che "tutti tribolavano sotto il peso di qualche sofferenza; tutti soffrivano; qualunque strada si prendesse al mondo, bisognava sempre ricordare che tutti soffrivano (nessuno era soddisfatto; tutti erano offesi, trascurati, misconosciuti, incompresi), perciò bisognava fare il possibile per alleviare il peso di coloro con cui si veniva in contatto; la sua attuale condizione di sofferenza non era esclusiva, tutt'altro, ma simile a quella che vivevano e avrebbero vissuto altre schiere di persone, in ogni momento, in ogni tempo, e non andava prolungata né esagerata perchè, in quella condizione, lui non poteva essere di aiuto a nessuno e dato che il suo ruolo lo poneva nella condizione di essere di grande aiuto o gran danno, non doveva continuare ad abbattersi, se poteva evitarlo".

Quale il male da alleviare allora, quanta sofferenza si poteva e doveva infliggere perché l'umanità andasse avanti, alleviando parte di quelle sofferenze ma infliggendone altre? Quale il sommo bene da raggiungere e salvaguardare? la risposta che si è dato è nella storia, e le varie considerazioni politiche del caso qui sono fuori luogo.

 E' un libro, questo, che per la forma richiede duttilità e, almeno all'inizio, la pazienza di andare fino al punto in cui  il contesto diventa chiaro; per la sostanza, di indubbia inclinazione escatologica,  la disponibilità di entrare in un mondo che il più delle volte evitiamo perché inconosciuto e inconoscibile, legato alle paure più recondite del nostro essere,  insinuante di struggenti nostalgie reali e ipotetiche.

In alcune interviste l'autore ci dice che lo spunto a scriverlo è stato proprio il venire a conoscenza, circa vent'anni fa, dell'episodio di Abramo Lincoln che passa la notte insieme al figlio appena sepolto, e che solo la maturità raggiunta lo ha portato a dare esito concreto a questo suo proposito di non facile attuazione per la complessità e la delicatezza dell'argomento. Inevitabilmente è, almeno per come lo ha elaborato, anche un libro che pone riflessioni su un momento storico che ha segnato un punto determinante per la storia degli Stati Uniti e che, forse, porta a riflettere anche su come sono arrivati allo stato attuale di regressione culturale e sociale. E neanche il romanzo è immune dalla tematica del razzismo, sia perché la figura di Abe Lincoln la pone anche solo con la sua presenza sia per come le anime dei neri, presenti nel Bardo, cercano di entrare in rapporto con lui, per quello che esprimono e cercano anche di comunicargli; l'ultima pagina del libro, a questo proposito, è un piccola raffinatezza.

Saunders, comunque, riesce a smorzare la drammaticità insita nella sua narrazione con elementi farseschi, con dialoghi e racconti irriverenti, ironici, beffardi a volte al limite della comicità e dell'oscenità, e tutto è pervaso da un senso di umanità, di comprensione e accettazione a priori, di vite ormai consumate ma ancora non propriamente concluse e, in generale, di tutta una umanità che si arrabatta per vivere la miglior vita possibile a cui rimane strenuamente attaccato anche oltre la morte.
Si respira per tutto il libro un senso di reciproca empatia profonda che trova la sua massima e più compiuta espressione in quell'atto estremo che è rappresentato nell'entrare letteralmente l'uno dentro l'antro, atto possibile nell'irreale situazione del narrato.

Tutto è coerente nel romanzo di Saunders, pur nella sua frastornante costruzione, solo una cosa mi risulta forzata e deviante: la visione che il reverendo everly thomas, unica anima consapevole di essere morto, ha di una sorta di giudizio divino al cui cospetto si sottrae, rimanendo nel Bardo, per la paura di non essere esente da peccati che potrebbero negargli il "paradiso".  Il riferimento troppo esplicito alla narrazione cristiana dell'al di là risulta fuori dalla logica dell'impianto laico che il libro sembra avere dove anche il rimando all'elemento buddista del Bardo è solo funzionale al racconto e non specificatamente assertivo di un carattere religioso.