giovedì 7 luglio 2016

La trilogia di Kent Haruf



Mentre stavo scrivendo questo post, mi è venuto in mente che quello che io scrivo è strettamente legato a quello che io, e solo io,  ho letto.
Da qualsiasi libro leggiamo, ciascuno di noi tira fuori una visione soggettiva, ne riesce ad evidenziare solo le cose che ci ha trovato in base alle sue esperienze, idee, conoscenze, aspettative; in qualsiasi libro leggiamo cerchiamo noi stessi o quello che avremmo potuto/voluto essere..tralasciando forse così parte del contenuto del testo e l'intento dell'autore. Questa precisazione risulterà, molto probabilmente, banale e scontata ma a mio parere è rilevante per chi come me, senza specifiche competenze di critica letteraria, si cimenta in pseudo recensioni che poi vanno in giro in rete.
Detto questo, quello che segue è quello che io ho colto nei libri di Haruf.

La Trilogia della pianura, (Il canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione), è stata pubblicata, con la traduzione di Fabio Cremonesi, dalla interessante e ben curata piccola casa editrice NN, che in realtà ha fatto uscire prima l'ultimo dei tre e poi gli altri due, qui le motivazioni, singolari e accattivanti, della loro scelta. Il problema, ora che sono presenti tutti e tre i libri, direi che è superato a monte, comunque anche se i libri si possono leggere disgiuntamente uno dall'altro senza perdere compiutezza, io ne consiglierei, in ogni caso, la lettura in ordine cronologico.

Il legante principale tra i tre romanzi è sicuramente la cittadina di Holt in Colorado, luogo immaginario ma credibilmente ispirato a Pueblo, città natale di Haruf; alcuni personaggi del primo libro ritornano nel secondo, ma ciò che unisce le tre narrazioni sono il territorio -  la polvere che si poggia piano sulle persone e le cose, sugli steli d'erba, la cappa di stelle nella notte, la luce che cambia la percezione visiva del paesaggio, il vento che fa ondeggiare la pianura e la fa cantare - e lo scandire pacato, ma intenso, semplice, ma profondo, che Haruf fa della vita e delle vite che abitano il posto.

 Leggendo la Trilogia si entra in una porzione della vita di provincia americana che forse non è stata, in particolar modo, oggetto di narrazione; molti i romanzi che ho letto in cui i protagonisti erano per lo più ai margini della socialità americana: vite estreme che si muovono tra violenze esasperate, ottusità mentali aberranti, razzismi feroci, profonda disperazione del vivere.

Quello che colpisce dello scrittore è il suo modo di raccontare l'umanità  che abita la provincia americana, mostrandocene un aspetto insolito: sotto la scorza di banalità e ripetitività di uomini perduti nella vastità del paesaggio, si nasconde un'umanità capace di amare e di soffrire senza rumore, senza gesti eclatanti,  ma con la compostezza e la sensibilità di chi non giudica a priori, ma è teso alla comprensione.

I personaggi della Trilogia sono persone "normali", per lo più in pace con la propria vita, non perché sia la migliore possibile, ma perché è la loro, la riconoscono come tale per quello che sono riusciti a essere e fare; sono persone senza crudeltà, senza dolori esistenziali distruttivi, senza pregiudizi verso i diversi da loro; vivono la loro vita così come se la sono trovata, e non è un'atteggiamento di rassegnazione  ma di consapevolezza e dignità, sono dotati di pietà umana e del coraggio, sia adulti che ragazzi, di difendere quello in cui credono e di opporsi ai soprusi di cui sono oggetto loro stessi e gli altri.

 Non sono "felici" nel senso in cui vorrebbe la Costituzione americana, non compongono le belle famigliole stucchevoli della pubblicità, i loro nuclei famigliari sono tenuti da legami di stima e di affetto, non necessariamente di sangue, sono famiglie di fatto come si direbbe oggi. Le loro vite non sono scontate, ma costruite con quel poco che si ha e quel tanto che si è.
 Ci sono, certo, personaggi violenti e menti sopraffatte dalla difficoltà della vita, non è un mondo idilliaco, ma non scalfiscono il comportamento dignitoso e carico di giustizia, reale e non necessariamente codificata, degli abitanti di Holt.

Così come vivono muoiono: Benedizione racconta la fine annunciata di un anziano, che nel suo ultimo periodo ripercorre la sua vita a ritroso, è una persona onesta ma non scevra da colpe: non si può rimediare sempre a quel che si è fatto, non si riesce a perdonare a se stessi, si può solo alleviare il male commesso, e lui ha cercato di farlo e continuato nell'intento anche poco prima di morire. Nella sua stanza di morte lui vede chi non c'è più perché morto o perché in qualche modo è stato allontanato, ma è anche circondato dagli affetti che lo hanno accompagnato nella vita e nei suoi ultimi giorni.

C'è da dire anche che i personaggi della Trilogia vivono e muoiono senza tante parole, la loro comunicazione è fatta più di sguardi e di fatti che di discorsi; un linguaggio, questo, tipico della letteratura americana che ha fatto del pragmatismo anche un modo di espressione comunicativa essenziale e schietta ma al contempo dotata di capacità espressiva e poetica.

L'esistenza umana è fatta più da "piccole persone" che da "grandi vite" ed è lì dentro che forse va cercata la vita vera e non c'è consolazione nella morte, ma solo la resa dei conti, senza reale riscatto, la vita è piena di problemi che vanno risolti nel miglior modo, ma quello che si è fatto è fatto e ciascuna esistenza rimane quella che è stata e il nulla la cancellerà.

Tutto questo si compie nel ventre materno della natura, nella pianura, quel paesaggio americano straniante e privo di riferimenti che crea spaesamento in chi la percorre, ma che forse è semplicemente accettata da chi ci abita e Haruf  ce lo racconta con una scrittura semplice, priva di fronzoli narrativi, ma dotata della capacità sia di raccontare in modo diretto e crudo certi aspetti della vita degli allevatori nella gestione degli animali, sia di scendere nella profondità dell'animo umano e del mistero della vita in modo equilibrato ma poetico, realista ma carico di intimità con il sentire più nascosto dell'uomo.

Un immagine mi viene in mente a compendio di tutto quello che sono riuscita a scrivere, la scena finale di Una storia vera di David Lynch.

https://youtu.be/MWEqjgFLCYA







venerdì 1 luglio 2016

Bibliografia sugli Indiani d'America




Ho stilato per l'ottimo sito www.farwest.it  una bibliografia riguardante i libri, pubblicati in Italia, sui nativi americani, qui sotto il link

http://www.farwest.it/?p=18994

domenica 6 marzo 2016

The hateful eight


(per chi ha già visto il film)









Nell’ottavo film di Tarantino gli otto protagonisti sono veramente pieni di odio e odiosi loro stessi, e non stanno lì a testimoniare solo la loro odiosità ma anche quella che ha caratterizzato la nascita e la formazione degli states. Sette uomini e una donna, un boia, un messicano, un soldato confederato, uno sceriffo, due bounty killer, uno bianco che non uccide le sue vittime ma le porta al patibolo, uno nero che si trascina dietro i cadaveri per riscuotere, un mandriano, una prigioniera del bounty bianco.










Le scene iniziali sono quanto di più classico del genere, una diligenza si muove in ampi spazi innevati, il paesaggio è grandioso e carico del fascino tipico del territorio americano, una bufera di neve sta per scatenarsi e l’ambientazione si sposterà e restringerà all’interno di una locanda dove gli Hateful si comporranno nel loro numero di otto.

Da qui inizia qualcosa di diverso che somiglia quasi al teatro, la scenografia si limiterà ai soli interni e si innesterà un vero e proprio whodunit (schema del giallo classico) la cui struttura è ben architettata e piena di suspense, creata da colpi di scena e dal gioco creato dall’ambiguità di alcuni personaggi.
Il compito “dell’indagine” è affidato al nero,
che come un detective di tutto rispetto, svelerà, attraverso l’interloquire serrato e quasi logorroico dei protagonisti, l’identità dei personaggi e il mistero della loro presenza in quel luogo; qui però il detective non ha i connotati tipici della crime story, non è colui che stando dalla parte della legge ricompone la realtà dopo che è stata violata dal male, rappresenta egli stesso il male, quello che ha subito e quello che ha inferto.
Il ritmo, in questa parte, è estremamente lento come la neve che passa dalle fessure del tetto all’interno della locanda, la bassezza umana degli hateful verrà fuori per ciascuno di loro, come pure la detestabilità dell’ambiente sociale in cui si muovono: la schiavitù, i grandi e piccoli razzismi, il sessismo estremizzato, la violenza e l’ingiustizia di un mondo che si andava formando sulla sopraffazione e la distruzione di uomini, culture e ambienti.

La complessità dovuta alle tante cose che vengono dette nel film, meriterebbe una seconda visione per poterne decifrare meglio i contenuti. C’è, sicuramente, una riflessione su cosa fu la grande mattanza della guerra civile, di quanto le motivazioni che la causarono fossero pretestuose e false come la lettera di Lincoln che possiede lo schiavo liberato e che verrà stracciata alla fine del film, fa intuire le varie efferatezze compiute durante e dopo il suo svolgimento e la profonda lacerazione che, da allora fino a tutt’oggi, si è creata tra nord e sud.

Dopo la lentezza della parte centrale, dopo la soluzione dell’enigma, tutto esploderà nel reciproco annullamento, nulla di più di quanto succedeva nella realtà da quelle parti e in quei tempi, in molte situazioni e a vari livelli di conflitti personali e sociali. Tutto precipiterà fino ad arrivare a una impiccagione all'interno della casa, e seppur l’eccesso di violenza è una peculiarità tarantiniana, in questo caso non ha le connotazioni grottesche e pulp che ne annullavano la drammaticità in altri suoi films,  ma risulta tremendamente vera.

                                                 
 In quella stanza dove tutto si svolge sembra racchiudersi la storia
intera di una nazione con le sue contraddizioni mai risolte, la sua sete di libertà individuali senza rispetto ma a dispetto degli altri, il suo modo violento di risolvere conflitti,  il suo calpestare da sempre tutto ciò che si frappone alla realizzazione e affermazione, ovunque, del suo modo di vita e della sua potenza.
Una bufera di neve fuori e una tempesta di odio dentro, il bianco fuori e il rosso dentro, la natura senza pietà ma anche senza crudeltà fuori e l’umanità annientatrice di se stessa dentro, Cristo crocefisso sotto la neve (prima inquadratura del film) fuori e la maschera di sangue sul viso della donna, concentrato dell’orrore e della violenza nichilista esplosa, dentro.


Secondo me è un film western a tutti gli effetti, se non diamo a questa categoria i limiti della classicità ma la lasciamo libera di includere anche forme che da essa si distaccano. Le tematiche e i personaggi della narrazione  sono proprie del contesto storico e sociale di quel genere. A differenza di Django Unchained, altro western del regista, non c’è il senso di liberazione finale, qui tutti uccidono e muoiono senza possibilità di riscatto e/o redenzione. Un film cupo senza eroi, che, allargando la prospettiva dall'America, contiene un'umanità intera carica di crudeltà e priva di pietà, di cui lascia intravedere l’autoannientamento.


Una perplessità sull’uso della rappresentazione della violenza però mi rimane, mi chiedo se non sia ormai un autocompiacimento sterile la cui reiterazione svilisce più che connotare il cinema di Tarantino, e che non sia diventato un richiamo per allodole che più che interessarsi ai contenuti del film lo guardano solo per gli schizzi di sangue e l’orrore delle scene più efferate.