giovedì 26 febbraio 2015

Selma di Ava DuVernay

Ava DuVernay, afroamericana già vincitrice al Sundance Film Festival del 2012 per Middle of nowhere, ha diretto un film storico dove il soggetto è quindi circoscritto dagli eventi che racconta, le marce, da Selma, Alabama, fino alla capitale dello stato Montgomery,


che, nel 1965, segnarono l’apice della lotta degli afroamericani per poter esercitare il diritto di voto a loro riconosciuto dal XV Emendamento della Costituzione nel 1870 ma di fatto osteggiato nel sud segregazionista.
Selma, però, è molto di più, perché con la sua intensità narrativa ci porta all’interno di un problematica mettendone a fuoco i vari aspetti sociali e personali.
Inizia con l’assegnazione del Nobel per la pace a Martin Luther King  e subito dopo viene inserita una potente e drammatica scena sulla bomba che membri del KKK fecero scoppiare in una chiesa afroamericana uccidendo quattro bambine; si introduce così quale fosse la realtà degli stati del sud degli Stati Uniti e come contrastasse un riconoscimento così solenne, quale il Nobel, con la realtà del razzismo e i livelli di crudeltà a cui arrivava, senza che le autorità federali intervenissero. Bastava uno sguardo, una parola non gradita perché un nero fosse ucciso, torturato, bastava passare per la strada per essere stuprata, bastava vivere per essere uccisi.

La figura di Martin Luther King è al centro del film, ma non se ne dà una visione agiografica, è l’uomo che viene colto, conscio delle proprie responsabilità di leader, assalito da paure e dubbi, teso nell’intento di scegliere la cosa giusta per l’intera comunità che guida.
La tensione per King era anche quella di garantire la non violenza da parte degli afroamericani, cosa difficile da realizzare perché significava non reagire all'essere picchiati, a vedere donne, bambini e anziani colpiti dalla ferocia della polizia e delle bande di bianchi armati e senza divisa che si prestavano, ben contenti di farlo, al pestaggio dei manifestanti. Era, la non violenza, una scelta morale ma anche un modo per far emergere la brutalità della repressione e cercare di coinvolgere l'opinione pubblica bianca che non condivideva il razzismo e le forme in cui si manifestava.

Controaltare a questa tipologia di comportamento non violento era rappresentato dalla dottrina di autodifesa armata di  Malcolm X, che appare nel film in un breve frammento in cui incontra Coretta Scott King mentre il marito è in carcere. X era a Selma, il 4 febbraio, perchè sollecitato a partecipare dal SNCC, l'organizzazione non violenta degli studenti, a una conferenza organizzata dalla Southern Christian Leadership Conference e sponsorizzata dallo stesso King, ma anche perchè, nonostante le sue critiche al movimento del pastore protestante, era affascinato dalla costanza e dal coraggio della battaglia di Selma. Parlò a una folla di 300 persone lodando l'impegno di King, ma ponendo come alternativa, a un eventuale suo insuccesso, la sua tipologia di resistenza.
La figura di Malcolm è quasi evanescente nel film, nei pochi momenti in cui appare, il 21 febbraio sarebbe stato ucciso, fa immaginare un possibile avvicinamento tra i due leader, se non per condividere il metodo di lotta, per la costruzione di una stima reciproca. Si avverte anche  in questo piccolo, ma, secondo me, intenso frammento, quale sarà anche il destino dello stesso King.

Du Vernay, ha girato un film reale e potente, in cui la descrizione degli eventi ha la forza della verità, nella sua crudezza e nella sua forza,  in cui i semplici fatti sono arricchiti dai retroscena  personali di tutti coloro che vi parteciparono, in cui la lotta per la giustizia ha lo spessore profondo delle sofferenze di ogni singolo partecipante; dietro ad ognuna di quelle persone che sfilarono da Selma a Montgomery, c'era una vita, delle aspettative, dei desideri, il diritto di esercitare la possibilità di essere una "persona".
Sono state mosse critiche alla regista per aver dato un'immagine negativa di Lyndon Johnson, ma da quello che mi risulta i fatti avvennero proprio così, e l'atteggiamento del Presidente fu esattamente quello descritto, e bene lo sottolinea King quando, sollecitato a rinunciare alle marce per evitare violenze, rispose che non era lui a dover fare un passo indietro ma lo Stato a doverne fare uno in avanti  e garantire, una volta per tutte e per tutti, i diritti Costituzionali tanto decantati per tutti i cittadini americani ma osteggiati per la popolazione afroamericana, di ribaltare quello che di fatto era il segregazionismo: il non diritto di vivere per i neri e il diritto di non farli vivere dei bianchi.

Mi viene da fare un'associazione tra questo film e i libri di Richard Wright, uno fra tutti/e gli/le scrittori/ttrici afroamericani/e.

Un'immagine mi ha colpito e mi sento di segnalarla quale sintesi, quella in cui un poliziotto, che si prepara a respingere la marcia, avvolge sul proprio manganello del filo spinato.
Quello che segue è un filmato della terza marcia, quella che arrivò a Montgomery.










lunedì 16 febbraio 2015

American sniper di Clint Eastwood


Il film è tratto da un libro, l’autobiografia di Chris Kyle, protagonista del film, texano, cow boy come lo si può essere oggi; la sua vita scorre nella normalità della provincia, i principi che lo sorreggono sono quelli classici e radicati nella tradizione americana-Dio Patria Famiglia- e uno in particolare, trasmessogli dal padre, quello di essere il “cane pastore”, colui che è in grado di usare la propria forza, al di là di considerazioni morali consolidate, per difendere le pecore (le vittime) dai lupi ( coloro che consciamente usano la loro forza in modo spietato a danno di altri). Quando vede le immagini degli attentati in Kenya prima e poi quelli alle Torri gemelle, decide senza la minima esitazione, di diventare per gli Stati Uniti il cane pastore di cui parlava il padre, di usare la sua infallibile mira per difendere la propria nazione. Diventa così, dopo un addestramento che prelude alla ferocia della guerra, cecchino in Iraq in quattro missioni, e la sua bravura è tale da essere chiamato dai suoi commilitoni “The Legend”.
Difficile parlare di questo film per chi come me apprezza la filmografia di Eastwood, ci si trova di fronte a un film sulla guerra, specificatamente la seconda in Iraq, che non pochi problemi, anche al di là di aspetti ideologici, ha causato a vari livelli, umanitari e geopolitici, e che basata su false e opportunistiche legittimazioni ha scoperchiato il vaso di pandora del medio oriente, di cui oggi vediamo le ultime atroci conseguenze.
Difficile perchè, almeno a me, mette in imbarazzo il contrasto tra l'indubbio valore stilistico e contenutistico del film e lo sbilanciamento che si avverte nel racconto delle due parti in gioco, statunitensi e iracheni.
Una chiave di lettura che mi viene da utilizzare prende spunto da quel " lupi agnelli cani pastore".

E' una metafora che, anche se non palesata come in American sniper, è spesso usata nei films di Eastwood e nella cultura americana, di cui lui, nel bene e nel male, è portatore.
La nascita del "grande paese" si è concretizzata come una occupazione violenta dei vasti territori da parte di soggetti dalla più varia provenienza e spinti da molteplici motivazioni.
Da quel coacervo di personaggi che realizzarono l'occupazione da est a ovest, dalle innumerevoli situazioni che si crearono di sopraffazione, razzismo, violenza gratuita, crudeltà efferate, da tutte le spinte che quegli uomini e donne portavano con sè, speranze, paure, disperazione, voglia di riscatto e felicità, una figura riscuoterà un aurea di leggenda, quella del "pistolero buono", il Chris Kyle della frontiera, il cane pastore che, pistola in mano vendicherà e impedirà soprusi ristabilendo un senso di giustizia umana non supportata da leggi, ma tutelata da quella stessa violenza che l'ha calpestata. Cito alcuni dei titoli della filmografia di Eastwood in cui è presente il "cane pastore", Il texano dagli occhi di ghiaccio, La città senza nome, Gli Spietati, Gran Torino e, forzando le parti in gioco, anche Million Dollar Baby dove l'ordine da ristabilire riguarda il senso della vita.

The Legend  esce dal cerchio ferito della sua nazione, ed esporta il mito.

Eastwood ha diretto films di una umanità intensa e di una sensibilità profonda, ponendo temi duri, ostici privati e sociali e se pure ci ha dato punti di vista poli-prospettici in pellicole quali The Flags of Our Fathers e Iwo Jima restringe qui l'occhio della sua telecamera e la prospettiva del film alla visuale circoscritta del mirino da cui Chris combatte la sua guerra.

E' attraverso quella visuale che Kyle individua le sue vittime, il suo colpo non partirà se non dopo individuali sofferte decisioni, i suoi primi nemici uccisi saranno un bambino e sua madre che tentano di colpire una postazione statunitense.

 La guerra del protagonistadi Kyle è ripetitiva, giorno dopo giorno, come un'operaio infila bulloni nella catena di montaggio fordiana, lui preme il grilletto e infila proiettili in corpi umani, e seppure lo fa con discernimento, l'alienazione finirà per scalfire anche la sua convinzione.

Non è un film a favore della guerra e non mi sembra grondi patriottismo come alcuni hanno rilevato, l'assurdità della guerra è presente nei detriti sminuzzati delle abitazioni irachene, nella polvere delle macerie che ricopre tutto e rende monocolore un mondo intero e i suoi abitanti. C'è un contrasto imbarazzante tra quel colore e il verde del Texas, il verde dei prati delle case ordinate dove bambini felici giocano e non hanno granate nascoste sotto i vestiti. Ma la sabbia è fine, sottile e si insinua anche nella mente dei soldati americani e profanerà il verde di quei prati quando torneranno a casa e anche quando non torneranno più inariderà la vita in quelle case ordinate.

Sarà proprio una tempesta di sabbia dalle proporzioni apocalittiche ( grandioso effetto scenico) che segnerà il momento finale dell'esperienza di Chris in Iraq. La sabbia renderà tutto confuso e indistinguibile ma non prima che Kyle abbia ucciso con un tiro incredibile il suo alter ego, il cecchino iracheno che come lui protegge dall'alto dei tetti i suoi compagni di guerra. La pallottola a rallenty supererà una distanza enorme fino a colpire il bersaglio e simbolicamente ucciderà anche Chris stesso come cecchino, tornerà a casa per rimanerci, ma la guerra se la porterà dietro e se la ritroverà nell'ordinato Texas, in quei reduci che non riescono a fare "pace" con l'orrore che hanno vissuto.


 Kyle, dopo un primo momento di smarrimento riuscirà a tornare a essere marito e padre affettuoso a rientrare nella normalità della vita, il senso della sua missione è così radicato in lui che a dialogo con uno psicanalista ammetterà di non avere sensi di colpa, di aver fatto ciò che doveva e convertirà il suo ruolo di soldato in quello di assistenza ai reduci con problemi di reinserimento nella quotidianità.
Sarà uno di loro ad ucciderlo, è in corso in questi giorni il processo a suo carico.
The Leggend morirà in suolo americano colpito da fuoco amico, in un  finale che ha del  grottesco se non fosse drammaticamente vero. La guerra, una volta che l'hai fatta, ti rimane addosso.



 Come epilogo di quanto detto sin qui, seppure è da tenere conto che il punto di partenza del film è quello soggettivo di un soldato e quello che racconta è la "sua" guerra, salta agli occhi che la descrizione delle parti in campo pecca di obiettività storica; gli americani erano in Iraq come forza di occupazione, gli iracheni difendevano il loro territorio e la loro vita, il gioco delle parti si inverte automaticamente: i lupi sono gli americani, le pecore la popolazione civile, i cani pastore quelli che le difendono; il terrore che tra le macerie si vive è quello dei bombardamenti continui, della paura che da un momento all'altro soldati con mitra in mano sfondino la tua porta di casa, che uccidano te e la tua famiglia o che la prelevino per portarla in luoghi di sofferenza; la condotta degli americani risulta sempre corretta e ponderata, per quanto in una situazione di guerra lo possa essere, mentre quella degli iracheni feroce e crudele, il punto di non ritorno di questo squilibrio è proprio nella scena in cui un bambino, per ritorsione, viene ucciso in un modo orrendo da un personaggio della guerriglia irachena. Per quanto possa essere vero, e lo sarà purtroppo, non può essere lasciata lì senza che venga raccontata anche la ferocia degli americani, anche se Chris nella sua biografia non ne fa menzione, e non perchè questo giustifichi in qualche modo quell'orribile gesto ma per un senso di onestà storica, che possa dare allo spettatore una visione più giusta di quello di cui si racconta. Nulla scalfisce la coscienza dei soldati americani nel film se non incidentali segni di cedimento da parte di un soldato che poi morirà e da parte dello stesso fratello di Chris di cui poi non ci è dato sapere più nulla. 
Si avverte, insomma, alla fine del film una necessità di giustizia che ristabilisca la verità dei fatti al di là della guerra personale che viene narrata. 
 Clint ha diretto un bel film, ma la sua attenzione alla fragilità umana, alla sofferenze dell'essere e del vivere, si è offuscata nel raccontare una leggenda.