martedì 28 maggio 2013

about "La grande foresta" di William Faulkner


Questo è il primo libro che leggo di Faulkner, se escludo il tentativo abortito di "L'urlo e il furore", lessi inoltre "La paga del soldato",  troppi anni fa per influenzare in qualche modo queste mie riflessioni.

Conosco, comunque, per via indiretta il contesto storico geografico in cui Faulkner visse e quanto sia stata innovativo il suo linguaggio letterario nell’ambito della letteratura americana.

La grande foresta è in forma di romanzo ma riunifica una serie di testi già pubblicati antecedentemente aventi come filo conduttore il tema della caccia ( in alcune edizione è presente un sottotitolo: Racconti di caccia) ma più ancora  avendo medesimi personaggi in tempi diversi e soprattutto individuando nella Foresta il personaggio principale.
In una mia, forse arbitraria o estremamente banale, considerazione, gli scrittori americani si suddividono in due grandi filoni, quelli di città e quelli di provincia, F. fa sicuramente parte dei secondi e la provincia di cui parla è quella del sud degli Stati Uniti, quella che, alla fine della guerra di secessione,  aveva subito un declino culturale, sociale ed economico irreversibile da cui forse non si è mai, completamente, risollevata.
Tali scrittori sono coloro in cui possiamo trovare un rapporto più diretto con l’ambiente naturale, una ricerca più viscerale del legame dell’uomo con la natura, uno sforzo a comprendersi come un elemento di un Tutto più che come costruttore di artifici e speculazioni mentali atti a elaborare una vita in cui porsi al centro come dominatore assoluto.
Per quanto la colonizzazione dell’America abbia fatto di tutto per eliminare, fisicamente e culturalmente, i nativi di quella terra, alcune delle loro idee e dei loro comportamenti di vita hanno fatto breccia negli animi e nelle menti di alcuni coloni, per esempio l’immagine dell’indiano libero e in movimento nei territori sconfinati e il rapporto che quel popolo aveva con la natura. Il loro concetto, che oggi chiamiamo ecologico, era basato sul fatto che l’uomo era parte integrante dell’ambiente in posizione egualitaria con tutte le altre forme di vita che rispettava e di cui al contempo si serviva per la sua sopravvivenza. Il mondo naturale è costruito come un sistema autosufficiente in cui ciascun organismo ha la sua funzione. Nella natura non esiste pietà, quando proviamo  orrore nel guardare una gazzella inseguita e catturata da un leone, proviamo un sentimento estraneo al contesto a cui lo riferiamo;  ma come non esiste la pietà neanche la crudeltà ne fa parte, ogni cosa ha un suo specifico compito per preservare e conservare il tutto, senza emozioni, senza sentimenti, senza alterazioni mentali, è la vita, nel senso più ampio del suo significato, nella sua semplicità essenziale.

Se l’uomo non si compenetra in questo meccanismo, e non l’ha fatto e non lo poteva fare completamente nell’evoluzione quantitativa e qualitativa della sua specie, inevitabilmente ne altera l’equilibrio.
Se qualcosa nell’eco sistema non ha funzionato è proprio l’essere umano, il più dotato essere vivente del pianeta, con il suo sviluppo negli anni, pochissimi in confronto a quelli dell’habitat in cui vive, ne ha stravolto l’equilibrio, perdendo la funzione che aveva in correlazione con le altre affinché il tutto funzionasse e soprattutto forzando quel tutto “in funzione” del suo sviluppo.
E in questa presa di potere  “disfunzionale”, l’uomo ha perso il senso della sua partecipazione al cerchio della vita, ha perso il  significato dell’esistere come compartecipante a un unicum, ha cercato soluzioni esistenziali in immaginarie costruzioni religiose e macchinosi intrecci filosofici, o ha estremizzato razionalmente la sua vita perdendo la percezione magica e sensitiva di essa, quel rapporto diretto e non mediato con il mondo naturale.

Cosa c’entra tutto questo con il libro di Faulkner?  C’entra almeno per me perché è questo che mi è venuto in mente leggendolo. È una letteratura “includente”, espressivamente potente, lo stile narrativo fa si che le parole scritte  e poi lette si facciano immediatamente veicolo ricettivo di un luogo, di una persona , di un evento, la distanza di tempo, di spazio, il salto tra realtà e finzione si annullano per l’efficacia della sua capacità evocativa.
E’ come se anche il lettore attraversasse quel muro ancestrale che nel libro è rappresentato dall’apparire della foresta ai margini della terra spianata dall’uomo, margine che avanza sempre di più, come se vi entrasse dentro e  si compenetrasse con ogni forma vivente al suo interno, alberi, animali, percependo e diventando egli stesso  parte dell’essenza vitale, senza tempo e immateriale, che le pulsa dentro.



 Altri due libri, seppur molto diversi tra di loro, hanno      contribuito alle considerazioni fatte sopra: "Inagehi" sul  rapporto tra natura e nativi e "Indian creek"  sull'esperienza di un giovane uomo che decide, per  lavoro, di passare un intero anno da solo sulle  Montagne Rocciose.