sabato 16 aprile 2011

Monument Valley



C’è una parte del territorio nord americano che mi affascina più di altri, tanto che al suo pensiero si insinua in me una ingiustificata nostalgia, ingiustificata perché nulla della mia vita è legato a quei territori, neanche andando a ritroso nella storia della mia famiglia.
Questi luoghi sono i “deserti americani” ed in particolar modo la Monument Valley, ormai divenuta, tramite le immagini dei film western e non solo, icona di una morfologia che trascende la materialità e si fa simbolo di atemporaneità.

Ha il paesaggio una potenza che ammutolisce, i monoliti di arenaria scolpiti dal vento, dall’acqua , dal ghiaccio, sembrano quasi, nelle loro forme, fatti ad arte ma testimoniano soltanto il lavorio del tempo, della natura, l’uomo ne è completamente estraneo. Si ergono isolati a punteggiare la valle come tappe di un cammino ancestrale, come giganti immobili a testimoniare una essenzialità da cui rifuggiamo nella gestione della vita; dolori e gioie scompaiono, rimane l’essere scarnificato da ogni orpello culturale ed emozionale di fronte all’indefinibilità del tempo.

”Quel che intorpidisce i sensi, lo spirito, e ogni sentimento di appartenenza alla specie umana, è il fatto di avere davanti a sé il segno puro, inalterato, di centottantamilioni di anni, e dunque l’enigma spietato della vostra stessa esistenza”…..” Il deserto è un’estensione naturale del silenzio interiore del corpo. Se il linguaggio, le tecniche, gli edifici dell’uomo sono un’estensione delle sue capacità costruttive, solo il deserto è un’estensione della sua capacità di assenza, lo schema ideale della sparizione della sua forma.”

La solitudine si concretizza nell’isolata immanenza delle rocce dalle forme bizzarre, parlano esse col linguaggio del silenzio, fatto di segni percepibili dalla propria interiorità ma non comprensibili dalla mente razionale. La solitudine non è più captata come uno stato d’animo, positivo o negativo, ma come un assoluto, se questa sensazione potesse trasmettersi al corpo e polverizzarlo come materia, si potrebbe all’infinito essere senza esistere, compenetrandosi nello spazio e nel tempo come essenza ed entrare nel nulla e nel tutto.

Il luogo sprigiona una presenza magica che va al di là della natura che rappresenta e affonda le sue radici nell’essenza della vita che raramente riusciamo a percepire, ma lì la intuiamo e ci lascia attoniti ed indifesi, perdiamo la nostra corporeità e ci facciamo spirito anche se il nostro spirito è monco della capacità di sentire la magia, capacità persa nel corso di secoli e nell’accumularsi delle nostre culture. Forse solo le popolazioni indigene erano riuscite a convivere e comprendere la grandiosità di quei luoghi, a trovare la giusta dimensione del vivere all’interno di una natura così estrema e selvaggia. Ma noi li abbiamo distrutti, fisicamente e mentalmente, rifiutando tutti i messaggi e le conoscenze che potevano trasmetterci.

“ Monument Valley è la geologia della terra, è il mausoleo degli indiani, ed è la cinepresa di John Ford.
E’ l’erosione, lo sterminio, ma è anche la carrellata e l’audiovisione. Tutti e tre sono mescolati nella visione che ne abbiamo. E ogni fase mette fine, in modo sottile, alla precedente. Lo sterminio degli indiani mette fine al ritmo cosmologico naturale di quei paesaggi a cui fu legata per millenni la loro esistenza. Con la civiltà dei pionieri, a un processo estremamente lento, se ne sostituisce uno molto più rapido. Ma anche questo è stato soppiantato, cinquant’anni più tardi, dalla carrellata cinematografica, che accelera ulteriormente il processo e in un certo senso mette fine alla sparizione degli indiani, riducendoli a comparse. Questo paesaggio è così depositario di tutti gli eventi geologici e antropologici, fino ai più recenti. Di qui la scenografia straordinaria dei deserti dell’Ovest, che associano il geroglifico più ancestrale, la luminosità più vivida e la superficialità più totale.”

Un luogo, una persona possono essere fagocitati dai media, ma per chi ne riconosce la specificità, la particolarità saranno sempre emblema di qualcosa,  e quella persona saprà ritrovarci, allontanando
tutte le mistificazioni fatte, un luogo o un pensiero che è parte di se stesso.

Le frasi virgolettate sono tratte da “America” di Jean Baudrillard ed. SE, sicuramente ci troverete dentro molto di più e detto molto meglio di quello che ho sopra scritto io ed anche altro.


lunedì 11 aprile 2011

James Lee Burke

James Lee Burke scrive essenzialmente noir, ma non solo, suo é, per esempio, "Two for texas", ambientato nel 1836, anno della famosa disfatta di Alamo; al suo interno si trovano storie di schiavitù, di repressione carceraria, di razzismo, di personali percorsi di vita che si vanno ad intrecciare con la Storia americana, in una delle più celebrate pagine di "eroismo" statunitense, compiutasi durante la dilagante, inarrestabile, violenta e sanguinaria occupazione delle terre che compogono gli attuali territori statunitensi.

L'autore nei suoi libri racconta il profondo sud, la sua natura,
i personaggi ambigui che le si muovono all'interno, le storie dure e crudeli che vi si svolgono.

I suoi romanzi noir, con un personaggio seriale, si svolgono in Louisiana la cui natura è presente, tortuosa, umida, fitta di vegetazione e incornicia benissimo gli eventi.

Vecchie storie di schiavismo, di razzismo che
continuano a macchiare le vite degli abitanti di un piccolo posto
vicino a New Orleans....il passato non si può dimenticare anche quando
lo si ignora, anche se chi orchestra tutto rimane impunito perchè
facente parte della classe ricca, potente, politicamente protetta.
Tutto è rallentato, segue il ritmo dei bayou, dell'acqua lenta ed
inesorabile che si muove nei piccoli dedali paludosi che frastagliano il
Missisipi in prossimità della sua foce.
La narrazione, tesa alla risoluzione di eventi criminosi, ci dice molto di più degli eventi che si susseguono, affonda nell'animo dei personaggi e svela le verità più scomode.